Torino. Rivolte, occupazioni, resistenza alle espulsioni. Oltre il muro

Un’altra estate calda sul fronte delle espulsioni. Lo scorso anno gli accordi con la Libia per i respingimenti in mare hanno condannato migliaia di profughi delle guerre nel corno d’Africa ad atroci odissee tra le galere di Gheddafi e il deserto. La morte in agguato, la vita appesa ad un filo. Alla faccia delle convenzioni ONU, del diritto di asilo ed altre amenità come i “diritti umani”.

Quest’anno il governo Belusconi ha sottoscritto un accordo con l’Algeria e la Tunisia che consente espulsioni rapide e di massa verso i due paesi del nordafrica.

Il 12 luglio in un’intervista a “La Padania” Maroni aveva dichiarato: è “un passo meno eclatante dal punto di vista mediatico rispetto all’accordo con la Libia e tuttavia è ugualmente, e sottolineo ugualmente, importante”.

La prima conseguenza dell’accordo è stata la diramazione di un telegramma a tutte le prefetture perché provvedessero alle scorte in vista dell’espulsione dei tunisini e degli algerini rinchiusi nei CIE.

La notizia crea fermento nei CIE di Trapani, Milano, Gradisca, Roma.

A Torino per due settimane si susseguono rivolte, tentativi di evasione, braccia tagliate, proteste sul tetto. Dall’altro lato del muro gli antirazzisti fanno occupazioni, blocchi, un presidio permanente di solidarietà.

Mercoledì 14 luglio. A fuoco la sezione bianca

La deportazione tocca a tre “ospiti” del CIE di corso Brunelleschi, ma le tensioni latenti da giorni esplodono. Intorno alle 15 divampa la rivolta.

Alla fine la polizia porta via due “ospiti” su tre. Gli immigrati dentro riferiscono che uno esce pesto e sanguinante.

I prigionieri reagiscono spaccando suppellettili e dando fuoco ai materassi. Un’intera sezione del CIE, la “bianca”, è resa inagibile: a nulla valgono gli sforzi dei vigili del fuoco chiamati a spegnere l’incendio. Alcuni immigrati salgono sul tetto.

Intorno alle 17 davanti al CIE si raduna un presidio di una cinquantina di solidali, che battono sui pali, fischiano, urlano per oltre due ore, nonostante il temporale che si abbatte sulla zona. I ragazzi sul tetto si sbracciano per salutare.

Si ha notizia di vari feriti lasciati senza cure.

Un marocchino si taglia con le lamette le braccia e il corpo: 10 poliziotti lo pestano a sangue. Viene condotto in ospedale solo alle 21. Ai volontari dell’ambulanza viene imposto di non portarlo all’ospedale più vicino, il Martini di via Tofane, ma alle Molinette. Viene spiegato loro che si tratta di motivi di “ordine pubblico”. L’unico motivo di “ordine pubblico” è evitare la presenza degli antirazzisti. La notizia filtra ugualmente: la solidarietà è più forte dei trucchi della polizia. Si saprà poi che l’uomo, Samir, sedato in ospedale a Torino, si è risvegliato a Roma, al CIE di Ponte Galeria.

Gli immigrati pesti e bagnati vengono lasciati nel cortile sino alle 20, quando sono rinchiusi nella sezione femminile, quella viola, svuotata in fretta e furia. Non ricevono né cibo né acqua sino alle 21,30, quando – da sotto le porte – viene passato loro qualcosa da mangiare. “Ce l’hanno allungato come ai cani” dicono. Uno si è ustionato alle mani e ai piedi durante l’incendio della sezione: chiede aiuto ma nessuno lo ascolta.

Occupazione alla Croce Rossa

Un gruppo di antirazzisti della rete “10luglioAntirazzista” decide di occupare il cortile della Croce Rossa in via Bologna, consentendo ovviamente alle ambulanze ed alle auto di entrare e uscire.

Gli antirazzisti entrano nel cortile, aprono lo striscione “Torino è antirazzista” e chiedono inutilmente di parlare con un responsabile per avere spiegazioni sulle cure negate ai feriti nel CIE. Quelli della Croce Rossa, con l’imperturbabilità di chi gestisce un lager, chiamano la polizia.

Gli antirazzisti decidono di restare finché non siano garantite le cure ai reclusi del CIE. Dopo un po’ oltre alla digos arrivano anche quelli dell’antisommossa.

La digos inizialmente nega la presenza di feriti, poi l’ammette minimizzando, infine, dopo tre lunghe ore, annuncia che la guardia medica visiterà l’immigrato ustionato.

È l’una quando chiamano dal CIE per annunciare che finalmente è arrivato il medico e il ragazzo ferito è stato portato in infermeria. Il medico ne disporrà il ricovero in ospedale.

Nei due giorni successivi verranno deportati da Torino otto tunisini.

Sabato 17 luglio. Antirazzisti a Traffic

Alla Reggia di Venaria è la serata conclusiva del festival “Traffic”, un evento che attira decine di migliaia di persone. Il 17 è la serata dedicata all’Africa. Una trentina di compagni della rete “10luglioAntirazzista” volantinano agli spettatori. Intorno alle 23,30 la direzione artistica di Traffic da il via libera ad un intervento dal palco: due striscioni “Torino è antirazzista” e “Chiudere i CIE subito” vengono aperti. Un caldo applauso saluta gli antirazzisti e le parole di un esponente della Rete e di Marianne, una ragazza nigeriana.

Libertà! È il grido che si moltiplica per un lungo minuto tra la folla del festival.

Lunedì 19 luglio. Sul tetto del CIE

Sabri, un tunisino senza carte, sale sul tetto della sezione viola, quella dove erano stati trasferiti i ribelli della bianca, deciso a resistere sino a venerdì, quando gli sarebbero scaduti i sei mesi di trattenimento al CIE.

Un altro recluso si trova in isolamento in attesa dell’imminente deportazione.

Intorno alle 14 comincia a formarsi un presidio solidale davanti all’ingresso del CIE in via Mazzarello. Purtroppo l’immigrato destinato alla deportazione viene portato via dall’ingresso secondario di corso Brunelleschi.

Il presidio antirazzista continua in corso Brunelleschi. In serata, complici le percussioni della Torino Samba band, i solidali, che nel frattempo sono cresciuti di numero, si avvicinano al muro del CIE e legano ad un palo una fiaccola. La polizia blocca con due camionette il controviale di corso Brunelleschi.

Per oltre un’ora si susseguono battiture e slogan poi parte l’assemblea, che decide di sostenere la lotta di Sabri e degli altri che, come lui, si sono fatti quasi sei mesi e, se non vengono deportati subito, potrebbero riguadagnare la libertà tra giovedì e venerdì.

Si sceglie di fare un presidio permanente, rimanendo lì giorno e notte. In un batter d’occhio arrivano tavoli, sedie e persino un ombrellone gigante.

I reclusi si fanno sentire con battiture e grida: pare che uno abbia tentato senza successo di fuggire.

Martedì 20 luglio. Davanti al CIE, ricordando Carlo

Sabri, nonostante il caldo feroce, resiste sul tetto. Va avanti anche il presidio solidale davanti al muro del CIE, dove, tra giorno e notte, si avvicendano un centinaio di antirazzisti.

Il pranzo nella sezione dei ribelli viene consegnato solo alle 15. Intorno alle 17, dopo una veloce assemblea, una quindicina di persone si muove verso l’ingresso di via Mazzarello per consegnare acqua e the freddo, battendo i pali per farsi sentire dentro.

Uno striscione con la scritta “20 luglio 2001. Carlo assassinato dallo Stato” è appeso al presidio, per ricordare che quel giorno, nove anni prima, un carabiniere aveva sparato in faccia ad un ragazzo di 23 anni che manifestava contro i padroni del mondo.

In serata Torino Samba Band scatenata davanti al muro del CIE, poi assemblea.

Per giovedì sera viene lanciato un corteo intorno al CIE.

Mercoledì 21. Presidio e giri in centro

Un altro immigrato, Maher, in isolamento sin dal giorno precedente, viene portato via. Maher è il ragazzo che, durante la giornata contro i CIE del 10 luglio, aveva lanciato una pallina con dentro la medicina che la Croce Rossa gli aveva dato per curare l’asma, un ottimo farmaco, peccato che fosse scaduto da ben due anni!

Sabri continua a stare sul tetto, gli antirazzisti, oltre a mantenere il presidio giorno e notte, si muovono in città con volantinaggi nei mercati, per far conoscere una vicenda sulla quale grava il silenzio dei media. Nel pomeriggio un gruppo, aperto dalla Samba Band, fa un giro in centro, sostando a lungo davanti alla RAI.

Finalmente alcuni media si interessano alla vicenda. Il Manifesto gli dedica la prima pagina, La Stampa e Cronacaqui criminalizzano, Radio Popolare di Milano, Radio Onda Rossa a Roma, oltre alla torinese Blackout danno ampia copertura alla resistenza di Sabri, ormai giunta al terzo giorno.

Giovedì 22 luglio. Giù dal tetto

Sono arrivati alle sei del mattino, con i vigili del fuoco e gli uomini in armi. Sabri, viene circondato e si butta giù, sui sacconi messi sotto dai vigili/poliziotti. Si fa male ad una gamba ma non viene portato in ospedale, dove inutilmente lo cercheranno per ore gli antirazzisti. Sul suo destino cala il silenzio: nemmeno ai suoi avvocati è fornita alcuna indicazione. Solo il giorno successivo, quando Sabri chiama da Tunisi, sapremo che lo hanno portato via di corsa, dolorante, con le braccia e le gambe strette con fascette da elettricista. Poi via di corsa verso l’aeroporto.

In strada gli antirazzisti del presidio hanno bloccato due delle quattro corsie di via Mazzarello e l’ingresso posteriore di corso Brunelleschi. Si sono anche buscati un po’ di manganellate.

Più tardi alcuni antirazzisti si sono recati all’aeroporto di Caselle per informare dell’accaduto, per fare appello ai viaggiatori in partenza a mettersi in mezzo per fermare la deportazione.

A Milano e Roma vengono simbolicamente occupati consolato e ambasciata tunisini.

In serata intorno alle mura del CIE si è tenuto un corteo. Cinquecento persone hanno gridato slogan, battuto i pali ed assediato per oltre un’ora i due ingressi del Centro di detenzione.


Venerdì 23 luglio. Sabri, Maher, Samir

Sabri è stato tre giorni e tre notti sul tetto del CIE per non essere deportato in Tunisia, dove – diceva – non c’è niente. Niente lavoro, niente futuro.

Stava diventando un simbolo, Sabri, il tunisino pescato in mare quasi sei mesi fa, finito prima al CIE di Crotone per tre mesi e mezzo, poi, quando una delle tante sommosse aveva reso inagibile parte di quel Centro, era approdato in corso Brunelleschi.

Voleva ritrovare la sua vita. In Italia c’era già stato per sette anni, pescatore ad Ancona. In Tunisia era tornato per rivedere, dopo tanti anni, i suoi.

Una “vacanza” che gli è costata sei mesi di imprigionamento nei lager della bella Italia. Poi la deportazione.

Quando ha chiamato per salutare e ringraziare della solidarietà ha detto “sto qui un po’, poi torno”. Non ci sono muri che contengano la voglia di libertà.

Anche Maher chiama dalla Tunisia e dice che tornerà: i suoi sono poveri e per lui non c’è altra via.

Va meglio a Samir, il ragazzo che si era tagliato durante la rivolta del 14 luglio e si era ritrovato a Roma. Anche lui sale sul tetto del CIE, ingoia vetri. Venerdì 23, ultimo dei suoi 180 giorni, riguadagna la libertà.

La resistenza continua.

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